Elsa Morante e il proustismo di Menzogna
e sortilegio: il motivo della chambre
e l’amour-jalousie.
Elsa Morante e il proustismo di Menzogna e sortilegio: il motivo della chambre e l’amour-jalousie.
Distante per una
precisa volontà autoriale e per una sorta di disdegno per le mode effimere da
quell’impegno politico che caratterizzava, invece, gran parte della scrittura
del dopoguerra italiano, la prima produzione di Elsa Morante impone–dall’osservatorio
privilegiato che la distanza temporale ci concede- una riflessione. Se i primi
scritti di Morante, i suoi racconti fiabeschi, la sua “Caterina” potevano far
meditare sull’esistenza di un mondo inventato e magico, quel che di tali
elementi viene assorbito nei racconti del Gioco
segreto del 1941(o anche in Il ladro
dei lumi scritto nel 1938 e pubblicato molto piú tardi nella raccolta del
1963 Lo scialle andaluso) e
soprattutto nel suo grande romanzo del 1948, Menzogna e sortilegio, possiede quel desiderio di scarto da una realtà
offensiva e opprimente quale quella dei tormenti del conflitto bellico, quali quelle quanto mai reali difficoltà
esistenziali che tale momento traumatico comportava di necessità a tanti
giovani, alla scrittrice Elsa, anche per via delle origini ebraiche per parte
diretta, quella materna.
Mi
chiedo quindi se il progetto di Menzogna e sortilegio
non derivi –forse- dal tentativo di sfuggire –di liberarsi- dai demoni di
quegli anni del conflitto bellico– quelli stessi che torneranno con prepotenza
in La Storia. Se nel primo romanzo i
rumori della guerra si affievoliscono per favorire la stesura della favola
familiare, nella Storia –con anni di
latenza com’è previsto dalle teorie psicanalitiche- il trauma degli anni
Quaranta viene ripreso e finalmente narrato. Le mie riflessioni si soffermano
sulle influenze della letteratura francese, prima fra tutte il motivo della chambre e il proustismo evidente nella
composizione di Menzogna e sortilegio,
dopotutto anche questo un romanzo strutturato intorno al concetto di trauma e
di latenza necessaria per tessere le fila di una narrazione dello stesso. Se in
Menzogna e sortilegio il dramma si
rinchiude nel labirinto del privato, nel labirinto delle stanze di appartamenti
dove l’accidia consuma la mente dei personaggi, in La Storia il dramma si fa pubblico, la narratrice abbraccia la
collettività, quel popolo che lei aveva pure visto soffrire ma di cui aveva,
per anni tralasciato di narrare.
La
sofferenza patita dai suoi personaggi ma prima che da loro da lei, dalla
narratrice Elisa che ci sgrana via via nel suo racconto, e al tempo stesso il
desiderio di sfuggire a essa nel conforto della finzione letteraria e del mondo
falsamente consolatorio della scrittura (che dona loro però l’unico strumento
di conoscenza per cui valga la pena di esistere); la ricerca della bellezza
nell’oggetto d’arte che si rivela platonicamente come l’unico in cui il bello e
il vero si fondino in quell’armonia della realtà che ricercava l’autrice, ecco
questi sono i nodi imprescindibili fra la realtà in cui si muoveva l’autrice e
la sua trasfigurazione letteraria di tali sommovimenti esistenziali. E tutto cio’
nell’amara consapevolezza di un’infanzia irrimediabilmente perduta.
Il
dato più originale nel senso di fusione di influenze, di innovazione e capacità
espressive di Menzogna
e sortilegio risiede nella sapiente manipolazione delle letture che
allora andavano per la maggiore fra i rappresentanti di quel coté
culturale italiano sempre proiettato verso il mondo che Parigi
intercetta quale sua migliore sineddoche quale esempio e modello di riferimento
alto (ma non solo). Morante, nel suo
manipolare a piacere le suggestioni procurate dalle letture proustiane, da Les enfants terribles di Jean Cocteau al
Grand Meaulnes di Henry
Alain-Fournier senza dimenticare uno dei suoi numi, Arthur Rimbaud, riceve il
dono simbolico di elementi testuali da questi autori per consegnarli poi ai
suoi lettori. Di quali doni si sta parlando? Fondamentalmente quello che solo
un grande autore, un “poeta” come lei poteva trarre: non un calco maldestro
bensì un’impronta, uno scarto rispetto alla norma, utile per trattamenti di
temi importanti e scabrosi ma destinati a restare nella narrativa italiana
moderna e contemporanea quali il familismo, il rapporto edipico madre-figlio,
il desiderio mimetico, l’omosessualità latente (quei ‘ti amo’ di Edoardo a Francesco che parte per la campagna
da Alessandra), la ciclotimia di Elisa, la tensione verso l’androginia come
cura per tutte le passioni erotiche.
Rileggere
tali testi alla luce di quelli morantiani di quegli anni richiama quello che
Harold Bloom definisce l’ansietà dell’influenza, e cioè una lettura del testo
precedente che si rende impossibile per il lettore senza che legga in filigrana
quello di colui/colei che tale testo ha influenzato. Chi legge oggi l’Odissea senza ripensare all’Ulisse joyciano? La linea “Proust-Morante”
si rivela in tanti modi. Nell’eseguire quella duplice lettura di cui scriveva Michel Riffaterre[1]
negli anni del post-strutturalismo, mi limito a tracciare alcuni vettori
critici riguardanti il proustismo di Menzogna e sortilegio nel
motivo della chambre e in quello dell’amour-jealousie. Sono tanti e importanti gli elementi intertestuali
che codificano il testo proustiano come una fra i più chiari interlocutori del
romanzo di Morante. Penso che comunque l’elemento intertestuale fondamentale (cosa
resta di proustiano nella sua ricezione oggi, insomma) si riveli in particolar
modo nella creazione di un mito, di un’icona, come si
direbbe usando il linguaggio attuale. Quello statuto a cui s’innalza una
persona (un personaggio del romanzo) in realtà affatto normale (se non
addirittura mediocre) verso la quale si ergono gli altari della propria
devozione, quest’ultima inspiegabile soltanto se non si ama.
Da
tale costruzione emerge lo sviluppo successivo nella diegesi che ci spiega
anche la forzata reclusione dal mondo esterno della narratrice. Per vivere con maggiore pienezza i sentimenti
che tale mito ci ispira, noi come Elisa ci chiudiamo all’interno di una stanza,
all’interno cioè del nostro spazio mentale. Il ruolo del mito, di questa icona ante litteram, risiede nel far apparire,
nell’esercitare il proprio fascino apotropaico, la capacità delle menti giovani
di sopravvalutare coloro i quali sanno suscitare in loro sentimenti
irrazionali, finzioni meravigliose, delusioni incommensurabili. Ma questo rimane
il fato della gioventù, pena il non essere amati, pena quell’insicurezza quasi
patologica che prova chi è giovane nei confronti del proprio sé.
Il compito dell’autrice allora, in
quanto creatrice dell’unica possibile verità,
quella che ci può consegnare soltanto una costruzione finzionale secondo René Girard,
risiede nella stesura di una cronaca di un’esistenza rimemorata e rivissuta
all’interno di una camera. L’impresa che compie la sua narratrice, Elisa,
giustifica la tesi stessa del presente studio. Dopotutto, a ripensarci, in una
recensione alla raccolta di saggi postumi Pro o contro la bomba atomica
curata da Cesare Garboli, Cesare Cases ci ricorda ironicamente che Leo Spitzer,
“volendo declassare Menzogna
e sortilegio non trovava di meglio che paragonarlo con Proust”[2]
. Nel romanzo morantiano si percepisce la conoscenza approfondita del discorso
narrativo proustiano, questo mi pare soprattutto nell’articolazione delle
strutture legate al processo del ricordo. Il colloquio fra il narratore della Recherche e Elsa rappresenta all’interno
delle evidenti diversità nel trattamento dei temi e dei criteri narrativi, uno
degli elementi che contribuiscono all’originalità del testo morantiano. Un
testo, per essere ‘originale’ deve presentare delle felici intuizioni
innovative nella ripresa di tematiche e strategie utilizzate dagli esempi
costituenti la tradizione del genere. Grazie alla duplice lettura è emerso come le strategie intertestuali di Morante
abbiano prodotto un registro di forte originalità nella sua ripresa di
atmosfere e situazioni legate al romanzo proustiano a cui anche molti suoi
contemporanei (Moravia, Bassani e altri ancora) avevano guardato.
L’amore e la gelosia formano un
connubio letale per il genere umano ma anche fertilissimo per il genere
romanzesco. I due narratori, procedendo
per una dialettica della gelosia che li vede impegnati in una scoperta di se
stessi e dei loro menzogneri personaggi nell’ottica patemica regolante la
prospettiva dell’intera narrazione, emergono dalle pagine finali dei reciproci
testi sicuri di aver intrapreso una ricerca dei propri errori passati
rintracciandoli nelle “fonti” sentimentali familiari. Nel loro volontario
isolamento, la sintassi passionale (i cui termini proustiani sono stati
analizzati da Harold Bloom)[3]
si rivela a tutti gli effetti l’elemento risolutivo per l’accostamento
dell’opera di Morante con alcune parti della Recherche, Du coté de chez
Swann e La prisonnière. La
consapevolezza che amore significa isolamento assoggettamento, impoverimento, alienazione
e orgoglio ferito, sono questi dati in comune che vengono esaminati nella loro
condizione di vittime coscienti della loro passione che non conosce il vincolo
del matrimonio, quell’Agape
d’altronde mai desiderato come punto d’arrivo nell’esistenza dei personaggi.
L’amore
si concepisce sviluppando i tratti dell’amour–jalousie
che Philippe Chardin privilegia come chiave di lettura tra le varie possibili dell’opera
di Proust[4].
Dilata e rivede le teorie girardiane del desiderio mimetico e slega rigorosamente
slegato dal matrimonio, al quale si conferma una funzione destabilizzante. L’amour-jalousie
viene assimilato da Proust come da Morante a un sentimento menzognero, a una
vera e propria malattia. L’amore proustiano, il morbus
sacer, ri-sofferto nella
reminiscenza del narratore esacerbata dall’impiego di un lessico medico che
arricchisce metafore, similitudini e altre figure retoriche nelle pagine
dedicate all’amore di Swann e a quello di Marcel per Albertine, conosce
comunque un esito diverso in Menzogna e sortilegio. Elisa,
testimone del destino sofferto dei genitori e consapevole di aver contratto il
“morbo ereditario” della menzogna, si allontana dal mondo per sfuggire a
qualsiasi insidia poiché convinta –per aver già provato l’amarezza di un amore
non corrisposto per la madre Anna e
traslatamente per Edoardo- che anche lei, come tutti i membri della sua
famiglia, non può nutrire speranze di un’esistenza felice: la condanna ricade
su tutta la famiglia come un maligno stemma nobiliare. Nella famiglia di Elisa
chi si sposa compie l’atto rinunciando all’amore: i matrimoni sono sempre “di
convenienza” da quello di Cesira a quello di Anna, le donne di casa Massia si
sposano per interesse, non per amore.
Il motivo della chambre
Nessuno
emerge vincitore da tale esperienza. Elisa si rifugia nella sua cameretta per
poter esorcizzare i fantasmi che bisbigliano parole d’infelicità e profonda
mestizia. Costruisce per gradi, con fatica e pure con un piacere tutto
perverso, il proprio lessico personale, fatto d’odio, di gelosia, di ignavia.
Con tale materiale Elisa costruirà la
propria cattedrale romanzesca. La forza di tale struttura proviene da quegli elementi
che sembrerebbero i più deboli e malfidati: i tentennamenti narrativi, l’uso
delle parentesi, le improvvise cesure, le riflessioni di carattere saggistico
sullo stato dei personaggi. Tutto viene intensamente rilavorato da una
narratrice la quale ha fatto tesoro delle proprie disperate letture dei
cavalieri e delle agiografie che Rosaria le donava quando si trovava in vita.
Gli anti-eroi morantiani paiono essere delle caricature in negativo dei
personaggi dei romanzi ottocenteschi. In loro s’è insediata una febbre e un
dolore che non ha nulla più a che vedere col secolo trascorso e tutto, invece,
con l’alienazione contemporanea a cui lo sperimentalismo modernista ha offerto
vari mezzi per articolarsi nella narrazione.
Cosi’
l’io proustiano inizia a parlare di sé e della sua condizione di adulto,
procedendo poi a ritroso in un tempo perduto dell’infanzia, e in uno
addirittura non pertinente alla sua sfera di conoscenza “effettiva”, in cui
l’amore di Swann per Odette costituisce un parallelo al “romanzo dei miei”
vergato dalla scrittrice Elisa. In entrambi i casi, i narratori “ricordano”
cioè inventano episodi accaduti in un tempo non soltanto anteriore al loro
presente, ma addirittura precedente alla loro stessa nascita.
Nell’infallibilità della loro percezione di artisti sanno quali dettagli esaltare, quali momenti narrare perché riesca
il loro intendimento nell’atto estetico.
Il y a bien des
années de cela. La muraille de l’escalier ou je vis monter le reflet da sa
bougie n’existe plus depuis longtemps. En moi aussi bien des choses ont été
détruites que je croyais devoir durer toujours et des nouvelles se sont
édifiées donnant naissance a des peines et a des joies nouvelles que je
n’aurais pu prévoir alors, de même que les anciennes me sono devenues difficiles
à comprendre. […] Mais depuis peu de temps, je recommence à très
bien percevoir, si je prête l’oreille, las sanglots que j’eus la force de
contenir devant mon père et qui n’éclatèrent que quand je me retrouvai seul
avec maman. En réalité ils n’ont jamais cesse; et c’est seulement parce que la
vie se tait maintenant davantage autour de moi que je les entends de nouveau,
comme ces clochers de couvents que couvrent si bien le bruits de la ville
pendant le jour qu’on le croirait arrêtées mais qui se remettent à
sonner dans le silence du soir[5].
In Gli ultimi cavalieri della trista figura,
terza delle parti in cui viene divisa l’Introduzione
di Menzogna e sortilegio il debito
verso l’opera proustiana per quell’atmosfera molle dove nel pulviscolo s’intravvede
la figura della scrivente si rivela cospicuo :
Mentre
per tanti anni le cose presenti o prossime m’apparvero remote, e quasi spente,
m’accade adesso, nel silenzio della mia camera, d’afferrare voci e rumori
sonanti in qualche stanza lontana del palazzo, e fin d’ascoltare dialoghi
d’invisibili casigliani, o di gente in crocchio nella strada. Questi dialoghi
mi raggiungono attraverso porte e muri, e sebben trattino per lo più
d’argomenti insignificanti, acquistano nel mio cervello uno straordinario
risalto[6].
Il
privato, sognato o ricordato, degli “Il y a bien des années de cela” prende
forma nel silenzio di una stanza, immagine e metafora del processo di creazione
a cui assiste il lettore o la lettrice:
L’unica finestra della
cameretta dà su un cortile; non, però sul cortile principale
del casamento, vasto e chiassoso, ma su una stretta corte secondaria, per dove
non passa quasi nessuno. Il casamento s’innalza per dieci piani, e in questa
corte, chiusa fra quattro altissimi muri di cemento, come una sorta di torre
scoperta in cima, il sole non entra mai, per nessuna ora o stagione; sul suolo,
fra le pietre sparse d’immondizia, spunta un’erba scolorita[7].
Il
narratore-ricordatore, anzi, ricordatrice, Elisa, ci confida, “Mi siedo al
tavolini e tendo l’orecchio all’impercettibile bisbiglio della mia memoria”[8].
Se nella stanza del narratore proustiano l’intrusione di figure cavalleresche e
miti del passato provenivano dal ricordo della lanterna magica, nel suo doppio
epico morantiano le figure sono interamente ricreate dall’immaginazione accesa
e febbrile di Elisa. Fra tutti, il gioiello più fantastico è il
racconto dei suoi. Il processo di “rimemorazione” non subirà alcun arresto se
non per le interruzioni esplicative o a momenti in cui la riflessione si fa più
ampia e riguarda la natura umana più in generale.
Sovrapponendosi
al solenne gotico delle cattedrali normanne tanto ammirate dal Marcel proustiano,
il barocco espresso nella scrittura di Elisa introduce preziosismi lessicali,
ombreggiature e sapienti chiaroscuri paratattici evocativi di quell’atmosfera
favolosa e fiabesca –ma anche molto melodrammatica- in cui è immerso il
romanzo. E’ non è un caso –parlando del
barocco- che il romanzo si apra sullo sfondo della descrizione di un Sud
polveroso, chiaramente un Sud siciliano
e non campano, quasi a rinnovare il legame fra la finzione e la verità della
famiglia dell’autrice. Innovativi sono gli intricati legami matrilineari
Cesira-Anna-Elisa, storie di donne all’interno di una genealogia che viene
analizzata da molto vicino e preme invece, nella sua forza soverchiante, sui
personaggi maschili, tutti sempre dei vinti, salvo Edoardo, il Capriccio, cioè
l’amore. Un romanzo di donne che si
odiano e amano fra loro, che sono capaci di grandi atti di rinuncia ma anche di
orgoglio e passione. E sono loro le protagoniste.
Dalla chambre
all’amore non corrisposto
L’amore,
persino nella fase iniziale dell’innamoramento, caratterizzato dall’idillio e dall’estasi,
è ugualmente impregnato di veleno mortale e di vapori fantastici, e viene
coraggiosamente denunciato da Elisa come una malattia, un delirio d’amore. I
personaggi appaiono incapaci di costruire un rapporto razionale con l’altro. La
prevaricazione si offre come unico modello di contatto fra chi prevale
psicologicamente e chi soccombe emotivamente. La tradizionale equivalenza fra
morbo e amore, quel famoso sbilanciamento degli umori corporei provocato
dall’insorgenza del secondo, arriva sino a Elisa. Pur continuando a utilizzare
parole e situazioni tipiche di tale articolazione tematica, il romanzo, genere
nato dal bisogno borghese di narrare se stessi, non riesce a dare a queste storie
di umili eroi il peso dell’epicità senza poi dover, invariabilmente,
aggiungervi il senso del ridicolo. Questi personaggi, in breve, sono tutti
grotteschi, maschere deformate di quel che in gioventù credevano di essere ma
che la legge spietata del capriccio amoroso ha reso tali. Inutilmente i
personaggi di Marcel e di Elisa rincorrono l’amore: esso esiste solo nella
menzogna romanzesca, che è poi anche l’unica forma di verità
possibile. La legge è una: fuori del Limbo non v’è Eliso.
Il limbo allora è la finzione narrativa, unico porto sicuro per entrambi. Per
Elisa v’è uno scarto successivo, risultato della tensione verso quell’androginia
alla quale s’è fondamentalmente votata già da tempo. Prima ancora,
cioè, di iniziare la stesura del romanzo.
L’atto
di nascondersi di Elisa nella stanza in fondo all’appartamento della sua
benefattrice indica l’irrevocabile rifiuto di una sessualità di cui il mestiere
stesso della buona e generosa Rosaria era l’emblema. La sessualità conduce a
una debolezza affettiva, a una vulnerabilità che sarebbe funesta per
Elisa perlomeno quanto lo fu per i suoi genitori, Anna e Francesco. Elisa preferisce
allontanarsi dalla divinità su cui ha costruito la propria cattedrale –l’Amore-
pur di non sottomettersi alla menzogna della vita. Consapevole di essere una
“monaca della menzogna” rinuncia comunque alla schiavitù di un desiderio
impossibile, l’amore corrisposto, quello che aveva portato la madre alla
follia:
Il fatto è che Anna, come sogliono talvolta
le anime forti e intere allorché s’innamorano, aveva del tutto rinunciato a se
medesima e perfino al proprio criterio. Gli atti e le parole d’Edoardo, ella
mai li attribuiva a malizia, anzi nemmeno li giudicava, accettandoli come i
fedeli accettano i decreti celesti. Se un’offesa di lui le suscitava sdegno,
ella preferiva di far la propria vendetta su se stessa piuttosto che sul troppo
amato offensore: trasformava, cioè, il proprio sdegno in una più docile sottomissione
a lui, domandosi con aspro dolore, come sotto una sferza. Era proprio questo
gioco che tentava il viziato cugino: nessuno spettacolo, infatti, è più grazioso,
per un amante crudele, di quello d’un cuore orgoglioso che castiga se stesso[9].
Elisa condanna gli
atti di violenza che Anna chiede ripetutamente al cugino. Edoardo rinuncia al
sacrificio delle trecce non perché non lo stuzzichi l’idea che la cugina perda
quella meravigliosa ricchezza, ma perché i capelli, come si sa, ricrescono. Il sacrificio- l’ “offerta votiva” -, per essere davvero tale, ha bisogno di un
elemento che ne caratterizzi la perennità. In un eccesso di trasporto Anna
compie allora un “sacrificio” definitivo: farsi deturpare il volto nella
“cerimonia della bruciatura”[10].
La cicatrice, prova visibile e eterna del proprio amore per il biondo cugino il
quale. Oltre a manifestare il desiderio di sofferenza del soggetto amante, il
masochismo di tale atto rivela anche il processo d’identificazione con
l’immagine di una divinità vera e propria, meritevole dell’adorazione di cui
Edoardo è stato fatto oggetto –per l’eternità- dalla cugina. Gli atti di
violenza che Anna richiede espressamente al cugino si associano nel suo
pensiero a quello che potrebbe richiederle solo un dio pagano. E’ al dio
Edoardo, al Capriccio, all’amore insomma, che Anna si assoggetta con desiderio
e sottomissione cieca.
[1] M.Riffaterre, La production du texte, Parigi, Seuil, 1979.
[2] C.Cases, “La Morante pro o contro la
menzogna”, in Sociologia della letteratura, a
cura di F. Ferrara, Roma, Bulzoni, 1978, pp.268-78.
[3]
H.Bloom, “Proust: The True Persuasion of Sexual Jealousy”, in ID. The
Western Canon, New York, Harcourt, Brace & Company, 1994,
pp.395-412.
[4] P.Chardin, L’amour
dans la haine, ou, la jalousie dans la littérature moderne, Genève, Drosz,
1990.
[5] M. Proust, Du coté de chez Swann I, pp. 55-56, in A la recherche du temps perdu, a cura di Pierre Clarac e Andre
Ferre, Parigi, Gallimard, 1954.
[6] E. Morante, Menzogna e sortilegio , Torino, Einaudi, 1948, p.26.
[7] Ivi, p. 16.
[8] Ivi, p.29.
[9] Ivi, p.170.
[10]
Ivi, p.188.
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