sabato 3 novembre 2012

Guest Blogger: Stefania Lucamante, Ordinary Professor of Italian and Comparative Literature, Catholic University of America.

È con grande piacere che vi presento la professoressa Lucamante, appassionata di Morante, e l'organizzatrice del convegno Davy Carozza International Conference “Elsa Morante and the Italian Arts” (il 25 al 27 ottobre a Washington D.C.).  Appena concluso il convegno mi ha spedito queste belle pagine, che sviluppano il tema di Proust già introdotto nel suo Elsa Morante e l'eredità proustiana, pubblicato nel 1998.  


Elsa Morante e il proustismo di Menzogna e sortilegio: il motivo della chambre e  l’amour-jalousie.


    Distante per una precisa volontà autoriale e per una sorta di disdegno per le mode effimere da quell’impegno politico che caratterizzava, invece, gran parte della scrittura del dopoguerra italiano, la prima produzione di Elsa Morante impone–dall’osservatorio privilegiato che la distanza temporale ci concede- una riflessione. Se i primi scritti di Morante, i suoi racconti fiabeschi, la sua “Caterina” potevano far meditare sull’esistenza di un mondo inventato e magico, quel che di tali elementi viene assorbito nei racconti del Gioco segreto del 1941(o anche in Il ladro dei lumi scritto nel 1938 e pubblicato molto piú tardi nella raccolta del 1963 Lo scialle andaluso) e soprattutto nel suo grande romanzo del 1948, Menzogna e sortilegio, possiede quel desiderio di scarto da una realtà offensiva e opprimente quale quella dei tormenti del conflitto bellico,  quali quelle quanto mai reali difficoltà esistenziali che tale momento traumatico comportava di necessità a tanti giovani, alla scrittrice Elsa, anche per via delle origini ebraiche per parte diretta, quella materna.

Mi chiedo quindi se il progetto di Menzogna e sortilegio non derivi –forse- dal tentativo di sfuggire –di liberarsi- dai demoni di quegli anni del conflitto bellico– quelli stessi che torneranno con prepotenza in La Storia. Se nel primo romanzo i rumori della guerra si affievoliscono per favorire la stesura della favola familiare, nella Storia –con anni di latenza com’è previsto dalle teorie psicanalitiche- il trauma degli anni Quaranta viene ripreso e finalmente narrato. Le mie riflessioni si soffermano sulle influenze della letteratura francese, prima fra tutte il motivo della chambre e il proustismo evidente nella composizione di Menzogna e sortilegio, dopotutto anche questo un romanzo strutturato intorno al concetto di trauma e di latenza necessaria per tessere le fila di una narrazione dello stesso. Se in Menzogna e sortilegio il dramma si rinchiude nel labirinto del privato, nel labirinto delle stanze di appartamenti dove l’accidia consuma la mente dei personaggi, in La Storia il dramma si fa pubblico, la narratrice abbraccia la collettività, quel popolo che lei aveva pure visto soffrire ma di cui aveva, per anni tralasciato di narrare.
La sofferenza patita dai suoi personaggi ma prima che da loro da lei, dalla narratrice Elisa che ci sgrana via via nel suo racconto, e al tempo stesso il desiderio di sfuggire a essa nel conforto della finzione letteraria e del mondo falsamente consolatorio della scrittura (che dona loro però l’unico strumento di conoscenza per cui valga la pena di esistere); la ricerca della bellezza nell’oggetto d’arte che si rivela platonicamente come l’unico in cui il bello e il vero si fondino in quell’armonia della realtà che ricercava l’autrice, ecco questi sono i nodi imprescindibili fra la realtà in cui si muoveva l’autrice e la sua trasfigurazione letteraria di tali sommovimenti esistenziali. E tutto cio’ nell’amara consapevolezza di un’infanzia irrimediabilmente  perduta.
Il dato più originale nel senso di fusione di influenze, di innovazione e capacità espressive  di Menzogna e sortilegio risiede nella sapiente manipolazione delle letture che allora andavano per la maggiore fra i rappresentanti di quel coté culturale italiano sempre proiettato verso il mondo che Parigi intercetta quale sua migliore sineddoche quale esempio e modello di riferimento alto (ma non solo).  Morante, nel suo manipolare a piacere le suggestioni procurate dalle letture proustiane, da Les enfants terribles di Jean Cocteau al Grand Meaulnes di Henry Alain-Fournier senza dimenticare uno dei suoi numi, Arthur Rimbaud, riceve il dono simbolico di elementi testuali da questi autori per consegnarli poi ai suoi lettori. Di quali doni si sta parlando? Fondamentalmente quello che solo un grande autore, un “poeta” come lei poteva trarre: non un calco maldestro bensì un’impronta, uno scarto rispetto alla norma, utile per trattamenti di temi importanti e scabrosi ma destinati a restare nella narrativa italiana moderna e contemporanea quali il familismo, il rapporto edipico madre-figlio, il desiderio mimetico, l’omosessualità latente (quei ‘ti amo’ di  Edoardo a Francesco che parte per la campagna da Alessandra), la ciclotimia di Elisa, la tensione verso l’androginia come cura per tutte le passioni erotiche.
Rileggere tali testi alla luce di quelli morantiani di quegli anni richiama quello che Harold Bloom definisce l’ansietà dell’influenza, e cioè una lettura del testo precedente che si rende impossibile per il lettore senza che legga in filigrana quello di colui/colei che tale testo ha influenzato. Chi legge oggi l’Odissea senza ripensare all’Ulisse joyciano? La linea “Proust-Morante” si rivela in tanti modi. Nell’eseguire quella duplice lettura di cui scriveva Michel Riffaterre[1] negli anni del post-strutturalismo, mi limito a tracciare alcuni vettori critici riguardanti il proustismo di Menzogna e sortilegio nel motivo della chambre e  in quello dell’amour-jealousie. Sono tanti e importanti gli elementi intertestuali che codificano il testo proustiano come una fra i più chiari interlocutori del romanzo di Morante. Penso che comunque l’elemento intertestuale fondamentale (cosa resta di proustiano nella sua ricezione oggi, insomma) si riveli in particolar modo nella creazione di un mito, di un’icona, come si direbbe usando il linguaggio attuale. Quello statuto a cui s’innalza una persona (un personaggio del romanzo) in realtà affatto normale (se non addirittura mediocre) verso la quale si ergono gli altari della propria devozione, quest’ultima inspiegabile soltanto se non si ama.
Da tale costruzione emerge lo sviluppo successivo nella diegesi che ci spiega anche la forzata reclusione dal mondo esterno della narratrice.  Per vivere con maggiore pienezza i sentimenti che tale mito ci ispira, noi come Elisa ci chiudiamo all’interno di una stanza, all’interno cioè del nostro spazio mentale.  Il ruolo del mito, di questa icona ante litteram, risiede nel far apparire, nell’esercitare il proprio fascino apotropaico, la capacità delle menti giovani di sopravvalutare coloro i quali sanno suscitare in loro sentimenti irrazionali, finzioni meravigliose, delusioni incommensurabili. Ma questo rimane il fato della gioventù, pena il non essere amati, pena quell’insicurezza quasi patologica che prova chi è giovane nei confronti del proprio sé. 
            Il compito dell’autrice allora, in quanto creatrice dell’unica possibile verità, quella che ci può consegnare soltanto una costruzione finzionale secondo René Girard, risiede nella stesura di una cronaca di un’esistenza rimemorata e rivissuta all’interno di una camera. L’impresa che compie la sua narratrice, Elisa, giustifica la tesi stessa del presente studio. Dopotutto, a ripensarci, in una recensione alla raccolta di saggi postumi Pro o contro la bomba atomica curata da Cesare Garboli, Cesare Cases ci ricorda ironicamente che Leo Spitzer, “volendo  declassare Menzogna e sortilegio non trovava di meglio che paragonarlo con Proust”[2] . Nel romanzo morantiano si percepisce la conoscenza approfondita del discorso narrativo proustiano, questo mi pare soprattutto nell’articolazione delle strutture legate al processo del ricordo. Il colloquio fra il narratore della Recherche e Elsa rappresenta all’interno delle evidenti diversità nel trattamento dei temi e dei criteri narrativi, uno degli elementi che contribuiscono all’originalità del testo morantiano. Un testo, per essere ‘originale’ deve presentare delle felici intuizioni innovative nella ripresa di tematiche e strategie utilizzate dagli esempi costituenti la tradizione del genere. Grazie alla duplice lettura è emerso come le strategie intertestuali di Morante abbiano prodotto un registro di forte originalità nella sua ripresa di atmosfere e situazioni legate al romanzo proustiano a cui anche molti suoi contemporanei (Moravia, Bassani e altri ancora) avevano guardato.
            L’amore e la gelosia formano un connubio letale per il genere umano ma anche fertilissimo per il genere romanzesco.  I due narratori, procedendo per una dialettica della gelosia che li vede impegnati in una scoperta di se stessi e dei loro menzogneri personaggi nell’ottica patemica regolante la prospettiva dell’intera narrazione, emergono dalle pagine finali dei reciproci testi sicuri di aver intrapreso una ricerca dei propri errori passati rintracciandoli nelle “fonti” sentimentali familiari. Nel loro volontario isolamento, la sintassi passionale (i cui termini proustiani sono stati analizzati da Harold Bloom)[3] si rivela a tutti gli effetti l’elemento risolutivo per l’accostamento dell’opera di Morante con alcune parti della Recherche, Du coté de chez Swann e La prisonnière. La consapevolezza che amore significa isolamento assoggettamento, impoverimento, alienazione e orgoglio ferito, sono questi dati in comune che vengono esaminati nella loro condizione di vittime coscienti della loro passione che non conosce il vincolo del matrimonio, quell’Agape d’altronde mai desiderato come punto d’arrivo nell’esistenza dei personaggi.
L’amore si concepisce sviluppando i tratti dell’amour–jalousie che Philippe Chardin privilegia come chiave di lettura tra le varie possibili dell’opera di Proust[4]. Dilata e rivede le teorie girardiane del desiderio mimetico e slega rigorosamente slegato dal matrimonio, al quale si conferma una funzione destabilizzante. L’amour-jalousie viene assimilato da Proust come da Morante a un sentimento menzognero, a una vera e propria malattia. L’amore proustiano, il morbus sacer, ri-sofferto nella reminiscenza del narratore esacerbata dall’impiego di un lessico medico che arricchisce metafore, similitudini e altre figure retoriche nelle pagine dedicate all’amore di Swann e a quello di Marcel per Albertine, conosce comunque un esito diverso in Menzogna e sortilegio. Elisa, testimone del destino sofferto dei genitori e consapevole di aver contratto il “morbo ereditario” della menzogna, si allontana dal mondo per sfuggire a qualsiasi insidia poiché convinta –per aver già provato l’amarezza di un amore non corrisposto  per la madre Anna e traslatamente per Edoardo- che anche lei, come tutti i membri della sua famiglia, non può nutrire speranze di un’esistenza felice: la condanna ricade su tutta la famiglia come un maligno stemma nobiliare. Nella famiglia di Elisa chi si sposa compie l’atto rinunciando all’amore: i matrimoni sono sempre “di convenienza” da quello di Cesira a quello di Anna, le donne di casa Massia si sposano per interesse, non per amore.

Il motivo della chambre
Nessuno emerge vincitore da tale esperienza. Elisa si rifugia nella sua cameretta per poter esorcizzare i fantasmi che bisbigliano parole d’infelicità e profonda mestizia. Costruisce per gradi, con fatica e pure con un piacere tutto perverso, il proprio lessico personale, fatto d’odio, di gelosia, di ignavia. Con tale materiale Elisa costruirà  la propria cattedrale romanzesca. La forza di tale struttura proviene da quegli elementi che sembrerebbero i più deboli e malfidati: i tentennamenti narrativi, l’uso delle parentesi, le improvvise cesure, le riflessioni di carattere saggistico sullo stato dei personaggi. Tutto viene intensamente rilavorato da una narratrice la quale ha fatto tesoro delle proprie disperate letture dei cavalieri e delle agiografie che Rosaria le donava quando si trovava in vita. Gli anti-eroi morantiani paiono essere delle caricature in negativo dei personaggi dei romanzi ottocenteschi. In loro s’è insediata una febbre e un dolore che non ha nulla più a che vedere col secolo trascorso e tutto, invece, con l’alienazione contemporanea a cui lo sperimentalismo modernista ha offerto vari mezzi per articolarsi nella narrazione.
Cosi’ l’io proustiano inizia a parlare di sé e della sua condizione di adulto, procedendo poi a ritroso in un tempo perduto dell’infanzia, e in uno addirittura non pertinente alla sua sfera di conoscenza “effettiva”, in cui l’amore di Swann per Odette costituisce un parallelo al “romanzo dei miei” vergato dalla scrittrice Elisa. In entrambi i casi, i narratori “ricordano” cioè inventano episodi accaduti in un tempo non soltanto anteriore al loro presente, ma addirittura precedente alla loro stessa nascita. Nell’infallibilità della loro percezione di artisti sanno quali dettagli esaltare, quali momenti narrare perché riesca il loro intendimento nell’atto estetico.
Il y a bien des années de cela. La muraille de l’escalier ou je vis monter le reflet da sa bougie n’existe plus depuis longtemps. En moi aussi bien des choses ont été détruites que je croyais devoir durer toujours et des nouvelles se sont édifiées donnant naissance a des peines et a des joies nouvelles que je n’aurais pu prévoir alors, de même que les anciennes me sono devenues difficiles à comprendre. […] Mais depuis peu de temps, je recommence à très bien percevoir, si je prête l’oreille, las sanglots que j’eus la force de contenir devant mon père et qui n’éclatèrent que quand je me retrouvai seul avec maman. En réalité ils n’ont jamais cesse; et c’est seulement parce que la vie se tait maintenant davantage autour de moi que je les entends de nouveau, comme ces clochers de couvents que couvrent si bien le bruits de la ville pendant le jour qu’on le croirait arrêtées mais qui se remettent à sonner dans le silence du soir[5].

In Gli ultimi cavalieri della trista figura, terza delle parti in cui viene divisa l’Introduzione di Menzogna e sortilegio il debito verso l’opera proustiana per quell’atmosfera molle dove nel pulviscolo s’intravvede la figura della scrivente si rivela cospicuo :
            Mentre per tanti anni le cose presenti o prossime m’apparvero remote, e quasi spente, m’accade adesso, nel silenzio della mia camera, d’afferrare voci e rumori sonanti in qualche stanza lontana del palazzo, e fin d’ascoltare dialoghi d’invisibili casigliani, o di gente in crocchio nella strada. Questi dialoghi mi raggiungono attraverso porte e muri, e sebben trattino per lo più d’argomenti insignificanti, acquistano nel mio cervello uno straordinario risalto[6].

Il privato, sognato o ricordato, degli “Il y a bien des années de cela” prende forma nel silenzio di una stanza, immagine e metafora del processo di creazione a cui assiste il lettore o la lettrice:
L’unica finestra della cameretta dà su un cortile; non, però sul cortile principale del casamento, vasto e chiassoso, ma su una stretta corte secondaria, per dove non passa quasi nessuno. Il casamento s’innalza per dieci piani, e in questa corte, chiusa fra quattro altissimi muri di cemento, come una sorta di torre scoperta in cima, il sole non entra mai, per nessuna ora o stagione; sul suolo, fra le pietre sparse d’immondizia, spunta un’erba scolorita[7].

Il narratore-ricordatore, anzi, ricordatrice, Elisa, ci confida, “Mi siedo al tavolini e tendo l’orecchio all’impercettibile bisbiglio della mia memoria”[8]. Se nella stanza del narratore proustiano l’intrusione di figure cavalleresche e miti del passato provenivano dal ricordo della lanterna magica, nel suo doppio epico morantiano le figure sono interamente ricreate dall’immaginazione accesa e febbrile  di Elisa.  Fra tutti, il gioiello più fantastico è il racconto dei suoi. Il processo di “rimemorazione” non subirà alcun arresto se non per le interruzioni esplicative o a momenti in cui la riflessione si fa più ampia e riguarda la natura umana più in generale.
Sovrapponendosi al solenne gotico delle cattedrali normanne tanto ammirate dal Marcel proustiano, il barocco espresso nella scrittura di Elisa introduce preziosismi lessicali, ombreggiature e sapienti chiaroscuri paratattici evocativi di quell’atmosfera favolosa e fiabesca –ma anche molto melodrammatica- in cui è immerso il romanzo.  E’ non è un caso –parlando del barocco- che il romanzo si apra sullo sfondo della descrizione di un Sud polveroso, chiaramente un Sud siciliano e non campano, quasi a rinnovare il legame fra la finzione e la verità della famiglia dell’autrice. Innovativi sono gli intricati legami matrilineari Cesira-Anna-Elisa, storie di donne all’interno di una genealogia che viene analizzata da molto vicino e preme invece, nella sua forza soverchiante, sui personaggi maschili, tutti sempre dei vinti, salvo Edoardo, il Capriccio, cioè l’amore.  Un romanzo di donne che si odiano e amano fra loro, che sono capaci di grandi atti di rinuncia ma anche di orgoglio e passione. E sono loro le protagoniste.
Dalla chambre all’amore non corrisposto
L’amore, persino nella fase iniziale dell’innamoramento, caratterizzato dall’idillio e dall’estasi, è ugualmente impregnato di veleno mortale e di vapori fantastici, e viene coraggiosamente denunciato da Elisa come una malattia, un delirio d’amore. I personaggi appaiono incapaci di costruire un rapporto razionale con l’altro. La prevaricazione si offre come unico modello di contatto fra chi prevale psicologicamente e chi soccombe emotivamente. La tradizionale equivalenza fra morbo e amore, quel famoso sbilanciamento degli umori corporei provocato dall’insorgenza del secondo, arriva sino a Elisa. Pur continuando a utilizzare parole e situazioni tipiche di tale articolazione tematica, il romanzo, genere nato dal bisogno borghese di narrare se stessi, non riesce a dare a queste storie di umili eroi il peso dell’epicità senza poi dover, invariabilmente, aggiungervi il senso del ridicolo. Questi personaggi, in breve, sono tutti grotteschi, maschere deformate di quel che in gioventù credevano di essere ma che la legge spietata del capriccio amoroso ha reso tali. Inutilmente i personaggi di Marcel e di Elisa rincorrono l’amore: esso esiste solo nella menzogna romanzesca, che è poi anche l’unica forma di verità possibile. La legge è una: fuori del Limbo non v’è Eliso. Il limbo allora è la finzione narrativa, unico porto sicuro per entrambi. Per Elisa v’è uno scarto successivo, risultato della tensione verso quell’androginia alla quale s’è fondamentalmente votata già da tempo. Prima ancora, cioè, di iniziare la stesura del romanzo.
L’atto di nascondersi di Elisa nella stanza in fondo all’appartamento della sua benefattrice indica l’irrevocabile rifiuto di una sessualità di cui il mestiere stesso della buona e generosa Rosaria era l’emblema. La sessualità conduce a una debolezza affettiva, a una vulnerabilità che sarebbe funesta per Elisa perlomeno quanto lo fu per i suoi genitori, Anna e Francesco. Elisa preferisce allontanarsi dalla divinità su cui ha costruito la propria cattedrale –l’Amore- pur di non sottomettersi alla menzogna della vita. Consapevole di essere una “monaca della menzogna” rinuncia comunque alla schiavitù di un desiderio impossibile, l’amore corrisposto, quello che aveva portato la madre alla follia:
   Il fatto è che Anna, come sogliono talvolta le anime forti e intere allorché s’innamorano, aveva del tutto rinunciato a se medesima e perfino al proprio criterio. Gli atti e le parole d’Edoardo, ella mai li attribuiva a malizia, anzi nemmeno li giudicava, accettandoli come i fedeli accettano i decreti celesti. Se un’offesa di lui le suscitava sdegno, ella preferiva di far la propria vendetta su se stessa piuttosto che sul troppo amato offensore: trasformava, cioè, il proprio sdegno in una più docile sottomissione a lui, domandosi con aspro dolore, come sotto una sferza. Era proprio questo gioco che tentava il viziato cugino: nessuno spettacolo, infatti, è più grazioso, per un amante crudele, di quello d’un cuore orgoglioso che castiga se stesso[9].

Elisa condanna gli atti di violenza che Anna chiede ripetutamente al cugino. Edoardo rinuncia al sacrificio delle trecce non perché non lo stuzzichi l’idea che la cugina perda quella meravigliosa ricchezza, ma perché i capelli, come si sa, ricrescono.  Il sacrificio- l’ “offerta votiva” -,  per essere davvero tale, ha bisogno di un elemento che ne caratterizzi la perennità. In un eccesso di trasporto Anna compie allora un “sacrificio” definitivo: farsi deturpare il volto nella “cerimonia della bruciatura”[10]. La cicatrice, prova visibile e eterna del proprio amore per il biondo cugino il quale. Oltre a manifestare il desiderio di sofferenza del soggetto amante, il masochismo di tale atto rivela anche il processo d’identificazione con l’immagine di una divinità vera e propria, meritevole dell’adorazione di cui Edoardo è stato fatto oggetto –per l’eternità- dalla cugina. Gli atti di violenza che Anna richiede espressamente al cugino si associano nel suo pensiero a quello che potrebbe richiederle solo un dio pagano. E’ al dio Edoardo, al Capriccio, all’amore insomma, che Anna si assoggetta con desiderio e sottomissione cieca.

[1] M.Riffaterre, La production du texte, Parigi, Seuil, 1979.
[2] C.Cases, “La Morante pro o contro la menzogna”, in Sociologia della letteratura, a cura di F. Ferrara, Roma, Bulzoni, 1978, pp.268-78.
[3] H.Bloom, “Proust: The True Persuasion of Sexual Jealousy”, in ID. The Western Canon, New York, Harcourt, Brace & Company, 1994, pp.395-412.
[4] P.Chardin, L’amour dans la haine, ou, la jalousie dans la littérature moderne, Genève, Drosz, 1990. 
[5] M. Proust, Du coté de chez Swann I, pp. 55-56, in A la recherche du temps perdu, a cura di Pierre Clarac e Andre Ferre, Parigi, Gallimard, 1954.
[6] E. Morante, Menzogna e sortilegio , Torino, Einaudi, 1948, p.26.
[7] Ivi, p. 16.
[8] Ivi, p.29.
[9] Ivi, p.170.
[10] Ivi, p.188.

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